Il lavoro con la comunità e per la comunità è sempre stato uno dei fuochi d’attenzione del servizio sociale.

L’analisi di alcune delle prime esperienze effettuate in Italia nel dopoguerra, pur se caratterizzate dalla specificità della fase storica, sembra assumere oggi un nuovo valore, ed è significativo il fatto che – negli orientamenti attuali – si possano ritrovare alcuni degli aspetti che già allora erano emersi.

I primi interventi di comunità, finalizzati a migliorare le condizioni di vita delle persone, individuavano – quali fattori essenziali – la partecipazione dei soggetti all’elaborazione e all’esecuzione dei programmi e la necessità di coordinamento tra i diversi servizi e di collaborazione tra governi e cittadinanza.

Come sottolineano Ferrario e Gottardi, “nelle diverse esperienze documentate emerge come specifico professionale dell’assistente sociale la formazione e la crescita di gruppi con funzione emancipativa e/o di rappresentanza e la tessitura di una vita associativa a sfondo civico con l’obiettivo di promuovere la soggettività della comunità nel suo complesso; l’operatore non si propone come solutore dei problemi della convivenza, ma come aiuto all’elaborazione delle diverse ipotesi verso un indirizzo condiviso, come fonte di stimolo per il superamento di diversi ostacoli, e per il rilancio della comunicazione”1.

La promozione della comunità nel suo complesso e l’operatore inteso non come solutore di problemi ma come stimolo per l’attivazione di processi sono state tematiche approfondite e sviluppate negli ultimi venti anni, fino a trovare legittimazione, in tempi recenti, anche dal punto di vista normativo.

Normative nazionali e regionali che oggi richiamano esplicitamente alcuni concetti fondamentali del lavoro di comunità, quali l’aumento della partecipazione attiva dei cittadini e la necessità di attivare percorsi di promozione comunitaria.

In tale scenario si torna a parlare di comunità e di zona, riferendosi alla possibilità di costruire un sistema integrato di interventi e servizi sociali realmente partecipato con i soggetti del territorio di riferimento.

L’espressione “lavoro di comunità” è generica e riconducibile oggi, trasversalmente, a molte professioni che operano in campo sociale.

Nell’esperienza anglosassone e americana, si usa solitamente l’espressione organizzazione di comunità per fare riferimento ad un modello particolare di individuazione e risoluzione dei problemi.

Secondo Martini e Sequi, si tratta di un modello “che affonda le sue radici nella pratica del servizio sociale”2.

Nelle prime esperienze italiane, il community work – definito come il “processo per il quale le persone appartenenti ad una comunità si uniscono per definire le esigenze ed i problemi con l’obiettivo di pianificare modalità di risposta utilizzando le risorse disponibili”3 – veniva articolato, a seconda dei problemi che affrontava e della realtà in cui operava, in sviluppo e organizzazione.

Lo stesso Ross, nella definizione che fornisce parlando di organizzazione di comunità come di un metodo del servizio sociale, afferma che “(…) Il suo fine coincide con ogni fine di servizio sociale (…)”4.

Oggi si parla di organizzazione e sviluppo di comunità facendo riferimento alla possibilità di attivare i soggetti per identificare ed affrontare i problemi che riguardano la comunità stessa, ma l’utilizzo di questa espressione non sembra più così connesso al servizio sociale come in passato.

Parlare di “servizio sociale di comunità” evoca solitamente, per quanto concerne l’esperienza italiana, gli interventi attuati negli anni ‘50 e ’60; l’espressione “interventi di comunità” è stata poi reintrodotta in Italia verso la fine degli anni ’70, da una corrente applicata della psicologia (la psicologia di comunità).

La stessa distinzione, di derivazione statunitense, nei tre metodi del case-work, group work e community work, è stata superata negli anni ’80 – riconoscendo l’importanza dell’unitarietà del metodo – in una logica “trifocale” che tenesse in considerazione i tre elementi persona-comunità-istituzioni.

Successivamente, si è diffuso anche in Italia l’interesse per la community care, come nuovo approccio per il servizio sociale, con alla base l’idea di dover responsabilizzare la comunità locale rispetto ai problemi presenti al suo interno.

La rinnovata attenzione per la comunità, legata anche alla crisi del welfare state tradizionale, avrebbe potuto far assumere al servizio sociale un ruolo fondamentale rispetto alla strada da percorrere.

In realtà, si è assistito più alla declinazione della community care nelle due direzioni della:

care into the community, intesa come cura da parte delle istituzioni formali nella comunità;

care by the community, intesa come possibilità della comunità di “curarsi” da sola.

Sembra essersi riproposto il paradosso del community work, quando si riteneva che la crescita di potere da parte delle comunità potesse essere un prodotto esclusivo del lavoro sociale formale.

Lo stesso lavoro sociale di rete, inteso come uno dei possibili “strumenti” della community care, non è stato probabilmente utilizzato in tutte le sue potenzialità.

I riferimenti al lavoro di comunità e all’approccio di rete sono molto diffusi tra gli operatori sociali, ma l’interpretazione che spesso ne viene data sollecita alcuni interrogativi: quando si può dire di usare un modello riconducibile all’approccio di comunità e di rete? quando si realizza un intervento di organizzazione di comunità?

Esistono molti progetti di promozione del benessere e di prevenzione del disagio che, nelle premesse teoriche, dichiarano di riferirsi allo sviluppo di comunità – seppur nella sostanza non sembrino attivare processi riconducibili a questo modello; per altro, si tratta spesso di progetti che utilizzano finanziamenti specifici e che hanno solo alcuni aspetti di raccordo con i servizi sociali istituzionali. Sono altresì frequenti alcune esperienze di educativa e animativa di comunità attivate dai servizi sociali comunali, ma che sembrano poi svilupparsi in parallelo ai servizi stessi, come se la logica di fondo non fosse estensibile ad altre aree di intervento.

Recuperando le definizioni sopraccitate, che si riferiscono all’organizzazione di comunità come metodo e pratica del servizio sociale, sorge spontaneo interrogarsi sul perché sia invece così raro trovare servizi che impostino il lavoro quotidiano secondo questo approccio. La stessa definizione del community work faceva riferimento al coinvolgimento dei soggetti della comunità locale: ma quale coinvolgimento reale si è tentato di attivare nel corso degli anni, quale è la logica che i servizi hanno continuato a perseguire?

Se per lavoro di comunità s’intende un approccio utilizzabile quando si perseguono obiettivi di empowerment – di cambiamento partecipato – quando si vogliono attivare processi di responsabilizzazione e di coinvolgimento, diviene necessario interrogarsi sulla differenza tra l’impostazione del servizio sociale tradizionale e quello di comunità.

Significa operare una scelta di campo, assumendo anche un atteggiamento critico nei confronti del proprio servizio e dell’istituzione di appartenenza, per uscire da quella logica di autoreferenzialità che ancora oggi contraddistingue gran parte delle realtà dei servizi.

Vuole dire contribuire a diffondere una cultura dei servizi realmente attenta allo sviluppo delle comunità, in grado di facilitare processi di crescita collettivi e di farlo considerando i soggetti non più “casi” ma attori con i quali cercare strade possibili.

“Uscire dall’ufficio” e non considerarsi al centro di ogni sapere, comporta sicuramente uno sforzo maggiore, un navigare a vista – insieme ad altri, che deve coniugarsi con la disponibilità a mettersi in discussione, a correre il rischio di procedere per tentativi ed errori, imparando dall’esperienza quotidiana.

Non si può parlare di servizio sociale di comunità solo perché si rivolge ad un certo bacino d’utenza, continuando a porre enfasi solo sulla “deficienza” e sulla cura; la comunità può e deve essere vista come un attore sociale, del quale valorizzare risorse e competenze in termini di sviluppo.

L’esperienza maturata nel corso degli anni supporta la tesi che l’attivazione di processi di empowerment comunitario e l’approccio di rete consentono di superare le distinzioni tra:

lavoro individuale, di gruppo e di comunità

assistenza/cura e prevenzione/promozione

Se nel lavoro di comunità la partecipazione attiva e responsabile dei vari soggetti è considerata uno degli elementi più importanti, è legittimo chiedersi, come afferma Gui “In quale modo, con quale “servizio sociale”, ciò che qui è definito “zonizzazione” può rivelarsi un processo di partecipazione reale e non un artificio formale?”7.

Resta il fatto che, considerato che la comunità – per esistere, deve essere promossa e sostenuta, è necessario chiedersi attraverso quali iniziative e quali interventi si possa avviare tale processo.

Riprendendo un interrogativo – spesso citato da Giorio – del Nobel Martin Luther King: “Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità?”.

 

1           F. Ferrario-G.Gottardi, Territorio e servizio sociale, Unicopli, Milano, 1987, pag. 30

2           E.R. Martini-R. Sequi, Il lavoro nella comunità, Carocci, Roma, 1988, pag. 91

3           F. Biestek, I cinque metodi del servizio sociale, lezioni tenute a Frascati nel 1960, traduzione a cura di V. Dalmati, Malipiero, Bologna, 1960, pag.33

4           M.G. Ross, Organizzazione di comunità. Teoria e principi, Harper & Brothers, New York, 1955. Traduzione italiana di P. Pasini Berardi, revisione e presentazione di G. Giorio, O.N.A.R.M.O., Roma, 1963, pag. 35

7           L. Gui, Le sfide teoriche del servizio sociale, Carocci, Roma, 2004